Torno dopo qualche tempo perché, finalmente, ci sono dei grandi passi avanti.
Vorrei che trovaste il tempo di leggere quello che ha scritto mia figlia in una nota su Facebook (premettendo che questa è stata la SUA strada e il SUO percorso, ciò che vuol fare è sensibilizzare le persone che non sanno nulla di questa patologia). Spero che possa portare speranza anche a voi.
"Vorrei raccontarvi la mia storia per proteggere chi ancora non sa come affrontare la sua e per aiutare chi sta già combattendo.
Ciao, mi chiamo Elena. Molti di voi non mi conosceranno molto probabilmente, ma il messaggio che voglio trasmettere in questa lettera è indirizzato a tutti, poiché si tratta di crescita personale mia e vostra. E’ molto importante per me che tutti siano al corrente di ciò, non tanto per egocentrismo quanto perché quel che ho vissuto io in questi mesi non debba viverlo più nessun altro.
Partiamo però dall’inizio, dal problema di fondo, che ha messo le radici all’interno del mio corpo e ha lasciato crescere quella pianta velenosa nel mio cuore che mi ha portato ad assentarmi per gran parte dell’anno scolastico di quarta liceo: fin da quando ho memoria ho sofferto di emetofobia (ossia, la fobia di vomitare o di vedere altri che vomitano), anche se sono riuscita a dare un nome a questa fobia solamente da poche settimane. Da piccola non sapevo cosa avessi, ma ogni giorno piangevo per la paura di vomitare. Nessuno sapeva che fosse qualcosa di simile anche per colpa mia, che da bambina quale ero mi esprimevo solo con un “mi fa male lo stomaco”, senza dire altro, piangendo e basta divorata dalla paura. Crescendo, in famiglia mi hanno aiutato a capire che non era lo stomaco a “fare male”, ma che era la mia testa che, a causa della mia paura, mi metteva in agitazione, e così per diversi anni ho imparato a controllare questa fobia, che ancora pensavo fosse una normale paura da “bambini”, che crescendo sarebbe scomparsa. Ma, ahimé, mi sbagliavo.
Nell’aprile 2017, nell’ultimo giorno di gita scolastica, ebbi il primo attacco di panico a causa dell’emetofobia, che fortunatamente passò nel giro della mattinata anche grazie all’aiuto di una mia compagna di classe e di stanza che mi è stata vicina in quei momenti, dei professori e del supporto di mia madre al telefono, e di tanto, tanto autocontrollo. Pensavo che fosse un caso, che sarebbe finita lì, ma non è stato affatto così.
I mesi restanti di scuola li feci serenamente, l’estate fu fantastica, ma a settembre ebbi un nuovo attacco di panico, durante la notte passata a casa di una cara amica, prima che iniziasse la scuola. Anche quella volta, con l’aiuto suo, della persona che adesso è il mio ragazzo, e di mia madre (che mi sgridò per averla svegliata nel cuore della notte per qualcosa di simile, e nei suoi panni al tempo le avrei dato anche ragione), ma soprattutto con l’aiuto di me stessa e di tanto autocontrollo, di una ripetizione continua di “sto bene, sto bene, sto bene…” riuscii a calmarmi.
Per un altro mese la situazione fu tranquilla, ma nulla fu più lo stesso…
La sera iniziai ad aver paura di andare a dormire, perché spesso mi svegliavo la notte agitata o molto tesa, alcune di queste notti avevo anche degli attacchi di panico senza però ancora sapere che fossero realmente quelli. La situazione non fece altro che peggiorare, ogni giorno che passava, e dall’inizio del 2018 in particolar modo questa fobia iniziò a condizionare di molto la mia vita.
Mi resi conto che, per la mia fobia di vomitare, oltre alla già presente paura di dormire iniziò a venirmi la paura di mangiare, perché nella mia testa si era innescato un meccanismo: “Se io non mangio non posso vomitare”, e la sensazione di fame iniziò quasi a essere qualcosa che cercavo più spesso, perché ero consapevole di non avere nulla in corpo che avrei potuto buttar fuori. In quel momento, quando confessai di avere paura di mangiare, mia mamma mi portò dallo psicologo; feci la prima seduta a fine gennaio, prendendo l’appuntamento a distanza di un mese, ma era già troppo tardi: gli attacchi di panico, che prima era qualcosa che accadeva qualche volta la notte, erano diventati un appuntamento giornaliero, che potevano essere a qualunque ora, che fosse la mattina appena sveglia, in pieno pomeriggio o nel cuore della notte. Svolgere ciò che faceva una persona normale era diventato estremamente difficile, come il semplice frequentare la scuola: iniziai a fare più assenze e a uscire prima.
Nella seconda settimana di febbraio, quando il mio ragazzo scese da Torino per stare con me qualche giorno, ci fu un altro episodio che mi ha segnato profondamente, ma prima di raccontarlo facciamo un passo indietro, tornando agli inizi del 2018.
Ho avuto l’immenso piacere di incontrare il mio ragazzo, di vederlo per la prima volta fuori da uno schermo, la persona che mi è stata più accanto in tutto questo tempo, anche nel cuore della notte, durante le ore scolastiche, ogni volta che avevo bisogno di lui. L’ultima sera che restava siamo tutti insieme andati a mangiare fuori al Sakura, essendo amanti del sushi; la serata si concluse nel peggiore dei modi: quando andai in bagno sentii chiaramente qualcuno vomitare nella porta affianco: da quel momento fino a tarda notte ebbi attacchi di panico, che mi portarono ad avere la paura di mangiare fuori.
Torniamo ora al mese di febbraio, il mio ragazzo torna e proviamo ad avere il nostro primo appuntamento da soli, sempre al Sakura: mi bastava il pensiero di andare lì per agitarmi, e anche quella serata fu un disastro. Ebbi un nuovo attacco di panico, il primo di una lunga serie che avrei avuto quella sera per cinque ore consecutive, e il mio primo attacco di rabbia. E’ da quel giorno che non mangio sushi, e da quel giorno non solo iniziai ad avere paura del cibo, ma iniziai a odiarlo proprio, a ridurre drasticamente le porzioni di cibo fino a mangiare il minimo indispensabile, a saltare pasti, continuando a cercare quella sensazione di fame che sembrava placare per un po’ le mie paure.
Alla fine di febbraio cambiai psicologo, perché un appuntamento mensile non avrebbe risolto niente, e iniziai a essere seguita da una privata, con appuntamenti settimanali.
Andiamo adesso al mese di marzo, precisamente al giorno 10: facevo parte di un progetto teatrale, il Festival Dantesco, e quel giorno vi erano le prove generali che non riuscii a fare per colpa di diversi attacchi di panico avuti nella giornata, cedetti le mie parti a due ragazze che facevano il progetto insieme a me e lasciando loro qualcosa comunque per aiutarle, e per me quella fu un’enorme sconfitta: avevo lasciato che la mia fobia mi portasse via un qualcosa che io amavo fare.
Ma la cosa peggiore accadde quella notte, tra il 10 e l’11 marzo. Tornare a casa fu devastante la sera, continuai ad avere attacchi di panico sempre più violenti, urlai fino a sentire la gola bruciare e non riuscii neanche ad arrivare a casa: mi fermai fuori sulla strada, in preda ai brividi del freddo e della paura, e a urlare come una disperata nel tentativo di calmarmi, finché non mi venne somministrato un calmante che, nel giro di qualche minuto fece effetto, riuscendo a farmi tornare a casa. In seguito a quanto successo quella notte, iniziai ad avere paura della macchina, di viaggiare e di stare fuori casa. Il giorno seguente, preoccupato per me, il mio ragazzo scese da Torino per qualche giorno, riuscendo per un po’ a placare quell’inferno che stavo vivendo.
Passiamo adesso ad aprile, fine vacanze di Pasqua. Il primo giorno di rientro a scuola feci solamente un’ora e mezza, che passai fuori dalla classe con un attacco di panico, e da quel giorno ho smesso di andare a scuola, iniziando a temerla come temevo qualsiasi altra cosa. Con la scuola facevo anche teatro, ma in seguito a un attacco di panico durato tutte le prove, mi costrinsi a rinunciare anche a quello.
Ero stanca, stavo rinunciando a tutto, non riuscivo più a fare niente, mi sembrava quasi di impazzire.
Un’altra notte, con diversi attacchi di panico violenti dalla sera fino a tarda notte fu messa a tacere solo dopo aver chiamato il 118 e dopo avermi somministrato un calmante per endovena, che mi lasciò stordita per tutto il giorno seguente, che a me sembrò quasi il paradiso. Da quel giorno, decisi di iniziare a prendere anche gli psicofarmaci. I medicinali che prendevo per stare tranquilla continuavano ad aumentare, da chimici a naturali a omeopatici, e ancora la situazione non sembrava migliorare, nonostante tutto il supporto psicologico e farmacologico.
Una mattina mi rifiutai sia di bere che di mangiare, mi portarono al pronto soccorso per cercare di risolvere anche stavolta il mio problema, e dopo un paio di flebo di calmante e nutrimenti per ciò che non avevo bevuto e mangiato potei tornare a casa.
Poco a poco tentavo di continuare a mangiare, di riprendere in mano la mia vita, ma non riuscivo.
Finché, un giorno, qualcosa non scattò: 7 maggio a mezzanotte e mezza.
Premetto che nei momenti dei peggiori attacchi di panico il pensiero che avevo più spesso erano pensieri suicidi, perché ero stanca della situazione che stavo vivendo e avrei preferito la morte a una vita in quelle condizioni. […]
Vorrei che trovaste il tempo di leggere quello che ha scritto mia figlia in una nota su Facebook (premettendo che questa è stata la SUA strada e il SUO percorso, ciò che vuol fare è sensibilizzare le persone che non sanno nulla di questa patologia). Spero che possa portare speranza anche a voi.
"Vorrei raccontarvi la mia storia per proteggere chi ancora non sa come affrontare la sua e per aiutare chi sta già combattendo.
Ciao, mi chiamo Elena. Molti di voi non mi conosceranno molto probabilmente, ma il messaggio che voglio trasmettere in questa lettera è indirizzato a tutti, poiché si tratta di crescita personale mia e vostra. E’ molto importante per me che tutti siano al corrente di ciò, non tanto per egocentrismo quanto perché quel che ho vissuto io in questi mesi non debba viverlo più nessun altro.
Partiamo però dall’inizio, dal problema di fondo, che ha messo le radici all’interno del mio corpo e ha lasciato crescere quella pianta velenosa nel mio cuore che mi ha portato ad assentarmi per gran parte dell’anno scolastico di quarta liceo: fin da quando ho memoria ho sofferto di emetofobia (ossia, la fobia di vomitare o di vedere altri che vomitano), anche se sono riuscita a dare un nome a questa fobia solamente da poche settimane. Da piccola non sapevo cosa avessi, ma ogni giorno piangevo per la paura di vomitare. Nessuno sapeva che fosse qualcosa di simile anche per colpa mia, che da bambina quale ero mi esprimevo solo con un “mi fa male lo stomaco”, senza dire altro, piangendo e basta divorata dalla paura. Crescendo, in famiglia mi hanno aiutato a capire che non era lo stomaco a “fare male”, ma che era la mia testa che, a causa della mia paura, mi metteva in agitazione, e così per diversi anni ho imparato a controllare questa fobia, che ancora pensavo fosse una normale paura da “bambini”, che crescendo sarebbe scomparsa. Ma, ahimé, mi sbagliavo.
Nell’aprile 2017, nell’ultimo giorno di gita scolastica, ebbi il primo attacco di panico a causa dell’emetofobia, che fortunatamente passò nel giro della mattinata anche grazie all’aiuto di una mia compagna di classe e di stanza che mi è stata vicina in quei momenti, dei professori e del supporto di mia madre al telefono, e di tanto, tanto autocontrollo. Pensavo che fosse un caso, che sarebbe finita lì, ma non è stato affatto così.
I mesi restanti di scuola li feci serenamente, l’estate fu fantastica, ma a settembre ebbi un nuovo attacco di panico, durante la notte passata a casa di una cara amica, prima che iniziasse la scuola. Anche quella volta, con l’aiuto suo, della persona che adesso è il mio ragazzo, e di mia madre (che mi sgridò per averla svegliata nel cuore della notte per qualcosa di simile, e nei suoi panni al tempo le avrei dato anche ragione), ma soprattutto con l’aiuto di me stessa e di tanto autocontrollo, di una ripetizione continua di “sto bene, sto bene, sto bene…” riuscii a calmarmi.
Per un altro mese la situazione fu tranquilla, ma nulla fu più lo stesso…
La sera iniziai ad aver paura di andare a dormire, perché spesso mi svegliavo la notte agitata o molto tesa, alcune di queste notti avevo anche degli attacchi di panico senza però ancora sapere che fossero realmente quelli. La situazione non fece altro che peggiorare, ogni giorno che passava, e dall’inizio del 2018 in particolar modo questa fobia iniziò a condizionare di molto la mia vita.
Mi resi conto che, per la mia fobia di vomitare, oltre alla già presente paura di dormire iniziò a venirmi la paura di mangiare, perché nella mia testa si era innescato un meccanismo: “Se io non mangio non posso vomitare”, e la sensazione di fame iniziò quasi a essere qualcosa che cercavo più spesso, perché ero consapevole di non avere nulla in corpo che avrei potuto buttar fuori. In quel momento, quando confessai di avere paura di mangiare, mia mamma mi portò dallo psicologo; feci la prima seduta a fine gennaio, prendendo l’appuntamento a distanza di un mese, ma era già troppo tardi: gli attacchi di panico, che prima era qualcosa che accadeva qualche volta la notte, erano diventati un appuntamento giornaliero, che potevano essere a qualunque ora, che fosse la mattina appena sveglia, in pieno pomeriggio o nel cuore della notte. Svolgere ciò che faceva una persona normale era diventato estremamente difficile, come il semplice frequentare la scuola: iniziai a fare più assenze e a uscire prima.
Nella seconda settimana di febbraio, quando il mio ragazzo scese da Torino per stare con me qualche giorno, ci fu un altro episodio che mi ha segnato profondamente, ma prima di raccontarlo facciamo un passo indietro, tornando agli inizi del 2018.
Ho avuto l’immenso piacere di incontrare il mio ragazzo, di vederlo per la prima volta fuori da uno schermo, la persona che mi è stata più accanto in tutto questo tempo, anche nel cuore della notte, durante le ore scolastiche, ogni volta che avevo bisogno di lui. L’ultima sera che restava siamo tutti insieme andati a mangiare fuori al Sakura, essendo amanti del sushi; la serata si concluse nel peggiore dei modi: quando andai in bagno sentii chiaramente qualcuno vomitare nella porta affianco: da quel momento fino a tarda notte ebbi attacchi di panico, che mi portarono ad avere la paura di mangiare fuori.
Torniamo ora al mese di febbraio, il mio ragazzo torna e proviamo ad avere il nostro primo appuntamento da soli, sempre al Sakura: mi bastava il pensiero di andare lì per agitarmi, e anche quella serata fu un disastro. Ebbi un nuovo attacco di panico, il primo di una lunga serie che avrei avuto quella sera per cinque ore consecutive, e il mio primo attacco di rabbia. E’ da quel giorno che non mangio sushi, e da quel giorno non solo iniziai ad avere paura del cibo, ma iniziai a odiarlo proprio, a ridurre drasticamente le porzioni di cibo fino a mangiare il minimo indispensabile, a saltare pasti, continuando a cercare quella sensazione di fame che sembrava placare per un po’ le mie paure.
Alla fine di febbraio cambiai psicologo, perché un appuntamento mensile non avrebbe risolto niente, e iniziai a essere seguita da una privata, con appuntamenti settimanali.
Andiamo adesso al mese di marzo, precisamente al giorno 10: facevo parte di un progetto teatrale, il Festival Dantesco, e quel giorno vi erano le prove generali che non riuscii a fare per colpa di diversi attacchi di panico avuti nella giornata, cedetti le mie parti a due ragazze che facevano il progetto insieme a me e lasciando loro qualcosa comunque per aiutarle, e per me quella fu un’enorme sconfitta: avevo lasciato che la mia fobia mi portasse via un qualcosa che io amavo fare.
Ma la cosa peggiore accadde quella notte, tra il 10 e l’11 marzo. Tornare a casa fu devastante la sera, continuai ad avere attacchi di panico sempre più violenti, urlai fino a sentire la gola bruciare e non riuscii neanche ad arrivare a casa: mi fermai fuori sulla strada, in preda ai brividi del freddo e della paura, e a urlare come una disperata nel tentativo di calmarmi, finché non mi venne somministrato un calmante che, nel giro di qualche minuto fece effetto, riuscendo a farmi tornare a casa. In seguito a quanto successo quella notte, iniziai ad avere paura della macchina, di viaggiare e di stare fuori casa. Il giorno seguente, preoccupato per me, il mio ragazzo scese da Torino per qualche giorno, riuscendo per un po’ a placare quell’inferno che stavo vivendo.
Passiamo adesso ad aprile, fine vacanze di Pasqua. Il primo giorno di rientro a scuola feci solamente un’ora e mezza, che passai fuori dalla classe con un attacco di panico, e da quel giorno ho smesso di andare a scuola, iniziando a temerla come temevo qualsiasi altra cosa. Con la scuola facevo anche teatro, ma in seguito a un attacco di panico durato tutte le prove, mi costrinsi a rinunciare anche a quello.
Ero stanca, stavo rinunciando a tutto, non riuscivo più a fare niente, mi sembrava quasi di impazzire.
Un’altra notte, con diversi attacchi di panico violenti dalla sera fino a tarda notte fu messa a tacere solo dopo aver chiamato il 118 e dopo avermi somministrato un calmante per endovena, che mi lasciò stordita per tutto il giorno seguente, che a me sembrò quasi il paradiso. Da quel giorno, decisi di iniziare a prendere anche gli psicofarmaci. I medicinali che prendevo per stare tranquilla continuavano ad aumentare, da chimici a naturali a omeopatici, e ancora la situazione non sembrava migliorare, nonostante tutto il supporto psicologico e farmacologico.
Una mattina mi rifiutai sia di bere che di mangiare, mi portarono al pronto soccorso per cercare di risolvere anche stavolta il mio problema, e dopo un paio di flebo di calmante e nutrimenti per ciò che non avevo bevuto e mangiato potei tornare a casa.
Poco a poco tentavo di continuare a mangiare, di riprendere in mano la mia vita, ma non riuscivo.
Finché, un giorno, qualcosa non scattò: 7 maggio a mezzanotte e mezza.
Premetto che nei momenti dei peggiori attacchi di panico il pensiero che avevo più spesso erano pensieri suicidi, perché ero stanca della situazione che stavo vivendo e avrei preferito la morte a una vita in quelle condizioni. […]